[Il candidato era il medico di famiglia]

La domenica delle Palme ho portato la mia famiglia a fare una passeggiata nei luoghi dei primi martiri della Cristianità, a Roma. Sono rimasti particolarmente colpiti da due cose:
quanto può essere toccante e spaventoso percorrere la strada circolare di una Chiesa enciclopedica e didascalica sui modi del martirio.
È stato così che il volto di mia madre ha visto susseguirsi espressioni di sdegno e orrore, nonché di vergogna e indignazione per i mille e uno modi di uccidere un Cristiano, ancora vivo naturalmente.
Solo per citarne alcuni:
Arso.
Arso sulla graticola.
Dissetato con piombo fuso.
Abbeverato con olio bollente.
Cotto nell'acqua bollente.
Fritto nell'olio bollente.
Fuso in metalli pesanti a loro volta fusi.
Sbranato da fiere dopo essere stato ricoperto di pelli grondanti sangue.
Tagliato a pezzi dalla forza dei rami di alberi cui veniva legato.
Gettato da un'altura.
Raschiato.
Scorticato.
E i più classici lapidato, crocifisso e crocifisso al contrario.
La decapitazione era riservata ai Cristiani romani, cui si concedeva una morte repentina e potenzialmente indolore.
Torniamo a Carosino, gemendo ancora per il dolore di quei testimoni della prima Ecclesia e ci troviamo di fronte allo spettacolo raccapricciante di un paese vicino alle elezioni e alla Pasqua: commistione quantomai inopportuna di sacro e profano, inopportuna per il sacro, opportuna (in senso di grandi opportunità di visibilità e rendenzione) per il profano.
Di fronte a scene di assoluta incoerenza e bassezza morale, ecco che viene rappresentata sulle pareti di voci e dicerie del nostro paesino la modalità preferita per uccidere “li crisctiani” (nel senso delle persone): infangarli.
Le voci girano e si arricciano pesanti e sporche sulle teste delle persone.
C'è chi prepara campagne elettorali e comizi concentrando tutto su questo strumento fangoso.
Cercando informazioni, vere o false che siano, per gettare fango sull'altrui reputazione.
C'è chi la propria reputazione infangata cerca di lavarsela, frequentando certe persone e certi luoghi.
C'è chi toglie il fango dalla persona che fino a qualche mese fa aveva egli stesso infangato per poi conservarla e rovesciarla sul capo di un nuovo o vecchio nemico politico.
C'è chi, più o meno inconsapevolmente, si fa strumento di questo piccolo martirio, e lava, e sporca, e terge, e getta naturalmente fango.
C'è chi usa il fango sugli altri per apparire più pulito.
C'è chi infanga chi ama e chi infanga il fango.
C'è chi fa statue di fango.
C'è chi fa parole di fango.
C'è chi nel fango ha rialzato altre persone dopo esserci caduto, come dice la celebre frase di una nota canzone di un conosciuto film che ha provocato un “infangamento a tempo determinato”.
C'è chi il fango l'ha visto colare addosso per poi essersene liberato e messo sull'altare, ma che a quel fango non rinuncia per identità da porco, per abbellire i suoi social network, per martirizzare amici, ex amici, ex e conoscenti.
C'è chi il fango lo usa come unico strumento elettorale e c'è chi subirà questo fango.
C'è chi vedrà tra qualche settimana volare fango ovunque e ricoprire l'intero paese in ogni suo angolo, anche in quelli coperti da tetti, volte e cappelloni, sottoforma di voci sussurrate, di sguardi torvi e di posti riservati.
E poi c'è chi si è accorto del fango e lo schifa.
C'è chi in questi circuiti ci entrerà perché ogni crisctiano a Carosino può essere infanganto, anche se testimone solo di onestà e verità, perché troppo libero di dire le cose come stanno, di smarcherare facce di fango, di non aver paura nonostante gli avvertimenti.
C'è chi s'indigna e si rattrista per come sia facile per i Carosinesi usare il fango indiscriminatamente, ignorando che la reputazione, la dignità e l'onore di una persona siano elementi fondamentali per poter affrontare serenamente la vita quotidiana.
C'è chi prova sdegno e orrore, nonché vergogna e indignazione per il modo carosinese di uccidere la reputazione di un altro Carosinese, ancora moralmente vivo naturalmente.
C'è chi pensa che non sia il fango a dover far vincere le elezioni o un posto in prima fila nella mente dei paesani.
Ma il Carosinese se ne frega e usa il fango, arma facile ed efficace, per guidare le menti dei non-infanganti (almeno così crede) e dirigerle nella propria direzione.
I Romani usavano mille e uno modi per martirizzare i primi Cristiani.
I Carosinesi sono affezionati ad un solo modo per martirizzare li crisctiani, ma lo usano con la stessa crudeltà.
Prepariamoci alle piogge di fango.
Le elezioni si avvicinano.
FOTO © ho visto nina volare - Flickr
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Sono giorni che penso e che ripenso all'opportunità di pubblicare questo post.
Sono giorni che penso se ne valga la pena.
Sono giorni che mi chiedo se è giusto esprimere liberamente quello che si pensa
sapendo che probabilmente la comunità incredula o bigotta ne farà pagare le conseguenze
solo alla mia famiglia.
"Habemus papam" di ieri sera mi ha fatto ulteriormente riflettere sulla questione della scelta.
Della scelta per sé, della scelta per i cari, della scelta per gli altri, della scelta per tutti.
Non ho ancora preso una decisione, nonostante l'appoggio della mia famiglia,
che del mio coraggio fa baluardo e scudo.
Per ora pubblicherò solo il titolo, consapevole che chi sa o chi ha riflettuto, capirà.
La gazza saltellava attenta tra i rami di grano nascente, attirata dal bagliore irregolare di un cilindro di vetro mosso dal vento. Il suo sguardo immobile nella testa appuntita e irrequieta era alla ricerca di materiale da recupero per la costruzione del nido, ma per un istante lungo un'immensità riuscì a vedere solo la bottiglia ondeggiare e scoprire ai suoi occhi ignari la terra abusata e umiliata sotto alla rinascita primaverile.
Il vento accarezzava piano le piume della gazza e, un poco più sopra, la forza della natura, spandendo polveri gialle e verdi sull'asfalto vicino, portando via i rami secchi fino al centro della strada e spazzando piccoli rettangoli di carta spiegazzati e marci quasi fino a casa di Elvis.
La gazza saltellando raccolse qualche rametto per poi prendere il volo verso il suo nido futuro: sistemò il materiale con precisione e cura, attorcigliando fittamente la ramaglia e il fogliame morto nel fondo di quella che sarebbe diventata una piccola mezza sfera cava.
La gazza riprese il volo, più lungamente, portandosi dalla periferia del paese alla piazza in festa. Era la controra e lo stomaco della cittadina taceva in un ruminare nascosto, tra pareti e soffitti, televisioni accese e discorsi sospesi.
Il vento accompagnò la gazza fino al balcone del palazzo ducale. Si guardò intorno con scatti precisi alla ricerca di qualche pezzo interessante per la sua opera ingegneristica.
Anche in questo il vento la aiutò. Altri piccoli rettangoli di carta colorata rimbalzavano tra le pietre lisce e il bordo del marciapiedi, disegnando volute di tramontana e spettacoli di danza estemporanea che nessuno spettatore aveva ancora visto, a parte la gazza.
Planando con grazia, si appollaiò vicino la sede de “La Crasta” e cominciò a raccogliere quei quadratini volanti. Ne imbeccò qualcuno, tra quelli più sfatti dall'azione dell'aria e dell'acqua, ma anche dell'essere umano che ne aveva piegato bordi, arrotolato il corpo, strappato gli angoli.
Quando comprese di non poterne raccogliere altri, riprese il volo indisturbata, nella calma del sole d'aprile e si portò verso l'intreccio di foglie e rametti che sarebbe stata a breve la sua nuova casa carosinese. Collocò i pezzi di carta più grandi nel mezzo, quasi a sovrapporre innumerevoli strati di un materasso dove poter deporre morbidamente le sue uova.
Fu così che in uno dei piccoli cuori pulsanti della primavera apperve il volto del signor Chiloiro. Vicino a lui, quello del signor Leuzzi che però fu meno fortunato: forse per via dei colori accesi la gazza ladra gli rifiutò il posto d'onore al centro del nido, spezzettandolo e relegandolo alle fessure aperte della struttura. Il signor Leuzzi fu collante e isolante, il signor Chiloiro tappeto e pavimento. Tra i rametti apparve anche qualche traccia del signor Sapio, senza volto, ma evocativo del cielo, a far da facilitatore ai pulcini prima di prendere il volo.
La gazza tornò più volte in piazza, raccolse qualche briciola per se stessa, un po' di filo dalla copertura della fontana, ma soprattutto altri rettangolini di carta, che ogni volta e in abbondanza trovava arrotolarsi in capovolte leggere sulle pietre chiare e spesso anche per le strade ad allietare gatti e cani randagi, annoiati e abbrustoliti al nuovo sole.
La gazza, naturalmente, continuava a preferire la piazza, nella quale Cataldo era guardiano e compagno, mai una minaccia. E continuava a preferire la controra perché trovava gli esseri umani meno chiassosi a quell'ora, se non del tutto assenti, perché alle persone che circondavano quei tre uomini appesi agli edifici della piazza, così divise tra loro, borbottanti, infelici e fintamente festose, a queste persone la gazza preferiva quei tre individui che convivevano da tempo e in perfetta armonia in casa sua insieme ai nomi di una pluralità di candidati, perché a quella piazza tesa e non accogliente, vuota e gremita preferiva la primavera.
La gazza tornò spesso in quella piazza sventolante, sempre alla controra, finché non ebbe finito il nido.
Nacquero i suoi pulcini.
L'ultimo nato morì presto.
Gli altri furono svezzati con vermi e semi.
La loro vita andò avanti nonostante Carosino.
Perché in fondo la primavera sboccia comunque.
Perché in fondo del mormorio degli uomini la primavera se ne frega.
Dettaglio foto "Carosino via Fieramosca" © BLove
Nel mio giardino di gelsomini e di aromi c'è un germoglio, fresco, tenero e chiaro.
Emana luce in mezzo alle piante già adulte, eppure è delicato e fragile...
Osservarlo genera in me un sentimento di protezione e di ansia.
A volte provo tristezza per il modo e il mondo in cui sta nascendo, ma mai ho pensato di estirparlo perché ne percepisco l'importanza, il ruolo essenziale per la mia vita.
E' la rabbia. La mia piccola rabbia.
Insultata, evitata, etichettata, bistrattata, è rimasta un seme nella nostra generazione.
Un seme silente, fintamente morto, seppellito in fondo al nostro stomaco.
Ma ora è il tempo della sua rinascita. La rabbia sboccia. E' tempo.
Succedono cose che la fanno crescere in fretta, anche troppo in fretta.
Ma io la curo e la abbraccio, la difendo dall'essere precoce, la tengo stretta in mezzo ai seni.
Mi fa male e mi fa piangere, mi fa corrugare la fronte e mi fa urlare davanti al telegionale.
Mi fa impazzire dal dolore pungendomi per ogni sensazione di impotenza e solitudine.
Mi fa mordere il labbro e stringere i denti di notte.
Mai mi abbandona la rabbia mentre la stringo.
Ma ora è il tempo. La rabbia cresce, la rabbia spunta dalla terra marcia, la rabbia emerge dalle ombre.
La rabbia è il mio futuro, il nostro futuro.
La rabbia mi prenderà la mano e mi accompagnerà nella lotta.
La rabbia mi darà il coraggio di scavalcare la transenna e di gridare.
La rabbia mi darà la forza di denunciare quello che non mi piace.
La rabbia mi sta già dando tutto questo.
Coltivate la vostra rabbia.
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Questa dichiarazione di amore e maternità nasce da due ore, lunghe e fredde, passate oggi davanti a Montecitorio. Ero partita piena di rabbia e di decisione, per unirmi alla manifestazione spontanea di cittadini e cittadine indignati/e per la decisione della Camera sul conflitto di attribuzione del caso Ruby... Corsa in scooter, parcheggio in piazza Venezia, via del corso a piedi in fretta... per poi ritrovarmi davanti ad un tetto di teste bianche o pelate. Non che io abbia qualcosa contro le persone adulte, anzi!, ma mi son chiesta "e i giovani?". Eravamo una minoranza in una minoranza ancora più piccola. Quanti potevamo essere? Un centinaio? Non saprei, non mi è mai riuscito di quantificare le persone ad occhio, so solo che mi sembravano troppo poche rispetto alla profondità dell'indignazione che provavo e che pensavo provasse anche metà degli Italiani e delle Italiane. E invece si trattava di poche persone sorridenti, serene, chiacchiericce. Scena solita: palchetto improvvistao sulla transenna, megafono in mano al leader del gruppo, bandiere di un po' di tutto (dal popolo viola all'IDV ai partiti comunisti), qualche manifestino pre-stampato e un gran parlare verso la gente. Verso la gente? Ma come? Ma io volevo urlare contro i deputati uscenti da Montecitorio! Ma come? Ma io volevo sputare in faccia ai ministri che erano lì a votare per una nuova questione personale del premier anziché pensare a come risolvere problemi urgenti o gravi! Ma come? Ma io volevo superare le transenne, entrare nel palazzo e buttare all'aria sedie e panche! Ma come? Ma io volevo riprendermi i miei poteri di cittadina, volevo dire la mia, volevo buttare la mia bomba di rabbia, volevo affrontare la storia, volevo camminare verso il futuro. Invece ero lì, ferma, a tremare con il mal di gola e il cola-naso, a guardare con la fronte aggrottata la gente che rideva, a invidiarne la serenità, a tenere stretta in grembo ancora la mia rabbia, a non aprire bocca nemmeno per "bella ciao" o per "Peppina è vivo e lotta insieme a noi", a sdegnarmi sentendo una signora appartenente ad uno dei gruppi politici presenti chiedere alla sua compagna "chi è Peppino?", mettere un piede davanti all'altro pensando all'inutilità di manifestazioni fini a se stesse, auto-dirette, auto-referenziali, auto-lesioniste e andare via, verso casa, con la fretta di chi vuole dare ancora acqua al suo germoglio, tenerlo al caldo e confortarlo 'che il suo tempo è vicino... Solo la strada, il modo, la via, devo ancora trovarli.
Coltivate la vostra rabbia.
Francesco non usciva mai di casa senza il suo cappello di paglia: un’ombra precisa disegnava sulla sua fronte rugosa una mezza luna bianca, rendendo quel lembo di pelle meno accartocciato del resto del viso. Il sole, infatti, lo aveva fatto invecchiare precocemente, insieme al suo lavoro.
“France’, Francescooooo! Eh! Sto qua!”
Ciro stava passando da via Dandolo con la sua bicicletta arrugginita, quella del padre per la verità, mentre Francesco rientrava in casa. L’urlo del giovane, figlio dell’assessore nel comune della cittadina, lo interruppe nel bel mezzo della difficile operazione di sollevare la sua personalissima sedia di paglia su per i tre gradini d’ingresso di casa.
“Ohè!!! France’! Che stai facendo in paese?! Di mattina poi…”
“Ciro caro, vi state burlando di me forse?”
Disse Francesco, voltando solo il capo, mentre il braccio tremante reggeva a stento la sedia. I suoi occhi erano piccoli, ma lo sguardo profondo, agitato e acquoso come un fondale marino.
“No, Francè! E piccé dici ccussì?”
“Eh, don Ciro, non vi siete accorto evidentemente del mio bastone ricurvo…”
“Naaah! Vero. E piccé lu tieni? Ssi' giovane tu!”
“Eeeh giovane! È vero che la buonanima di mio nonno ha campato 90 anni, e mio padre è ancora vivo, ma tengo pure i miei sessantasette anni…”
“Appunto, mica ssi' vecchio, eh scusa!”
Il viso di Francesco dapprima si schiuse in un sorriso, che stirò ogni segno addolcendo i tratti resi duri dall’estrema magrezza. Poi la sua espressione divenne melanconica.
“Don Ciro caro, ho amato il mio lavoro. Ho lavorato la terra ogni anno, ogni stagione. Ogni chicco è passato tra le mani mie…”
E mentre parlava, si distinsero piano sulle sue labbra secche i segni lasciati dal frumento, quando ne testava con perizia la maturazione.
“…e la terra mi ha cambiato da fuori, ma non mi ha mai tradito. Mi ha sempre restituito tutte le energie…”
“Spero mica solo quelle!!!” Rise Ciro, alludendo ai dieci figli di Francesco.
“No, mi ha dato pure la dignità!” Rispose l’altro con determinazione.
La sedia era tornata sul marciapiedi e da qualche minuto era diventata il suo secondo bastone.
“Eh, ma t'ha levato la salute però! Me lo vuoi dire o no piccé tieni lu bastone?!”
“Compagno caro…” Cominciò Francesco mentre Ciro, a quell’appellativo, storse il naso in un’espressione degna di uno dei personaggi del “Tarzanetto”, “…la terra lascia i suoi segni: guardate le mie mani… e i figli miei sanno come si sono ridotti i piedi miei. È stato un lavoro duro, faticoso, e io l’ho seguito ovunque mi ha chiamato. Fino a qua. Poi il sole ha fatto tutto il resto…”
A Francesco i nervi delle gambe si erano corrotti. Non era mai, mai successo che a giugno si vedesse in giro il suo cappello. Quell’estate, invece, per la prima volta, non era andato a trebbiare nei campi di grano e il sole lo arrostiva fuori dalla porta di casa, dove sedeva per ore pensando a come rendersi utile e produttivo per la sua prole.
“Lu sole, vabbeh... E mo’? Com'è che mangiate, eh?”
Francesco si irrigidì. Non ebbe nemmeno il tempo di rispondere, ‘che già Ciro gli aveva preso la mano dura e magra, stringendogli nel palmo un foglietto.
“France’, ti basta che ti ricordi questo segno qua quando vai a votare. E ti lu giuro che l’otto giugno da Licino ti basta dire il nome mio. Veramente! E puoi fa' la spesa a gratis per una settimana!”
“Don Ciro andatevene! Ora!”
Disse deciso Francesco, stringendo il pugno e accartocciando quel foglietto con tutta la sua forza.
“Andatevene!!!” urlò.
Le tende alle finestre delle case di via Dandolo si spostarono, anche se l’aria era ferma e satura di odore di sansa. Una moltitudine di occhi nascosti guardavano in direzione dei due. Una testolina scura sbucò dalla porta di casa: le sembrò proprio la scena del film western che aveva intravisto, un giorno, passando per caso davanti alla televisione della famiglia facoltosa del paese.
“Anna, rientra ppì favore!”
Disse dolcemente ma con fermezza Francesco, facendosi ubbidire e mantenendo lo sguardo fisso in quello di Ciro.
"Ma Francesco, non te la devi prendere così… Io lu saccio che è difficile, cu dieci figghj, mo’ pure i nipoti… non ti devi vergognare…”
A quelle parole il petto di Francesco si gonfiò in un respiro di rabbia e sdegno.
“Ma come vi permettete voi. Voi. Nemmeno ve lo meritate che vi dia del voi! Io non mi vendo per un pezzo di pane, lo avete capito?” Disse alzando la voce e muovendo nell’aria il suo bastone.
“Io non mi vendo!!!”
“Sai che c’è France’!? Ddà restà nu poveraccio! Nu poveraccio culli cazoni bucati, che fa la fame e si piange addosso come tutti i comunisti…”
“Voi! Voi e tutti gli amici vostri siete dei ladri!!! Ma la mia dignità non la rubi! Non mi potete ricattare voi, perché io e la famiglia mia valiamo di più di un voto. La dignità mia vale di più di questo ricatto vergognoso… vergognoso!” ripetè piano.
“Certo. E allora muori di fame. Io ti volevo solo aiutare.”
Disse Ciro mentre già riprendeva la strada verso la piazza del paese.
Francesco si accasciò sulla sedia sussurrando: “Mai”.
Il bastone gli cadde di mano.Rotolò fino al marciapiedi opposto, dove si fermò continuando ad oscillare.
Anna uscì di casa, guardò il nonno, ma non lo aiutò.
Sapeva che ce l’avrebbe fatta da solo.
Corse dall’altra parte della strada, qualche metro.Raccolse il bastone e tornò indietro.
“Anna”, la chiamò Francesco
“Butta questo nel camino. Dì a nonna Maria che io stoc'avoco allu patronato”.
Anna prese il foglietto appallottolato, entrò in casa e socchiuse la porta, appoggiandovi le spalle.
Sentì il rumore del bastone allontanarsi gradualmente.Poi riaprì le mani e srotolò il foglio: c’era uno scudo bianco, con una grossa croce rossa.
Anna sgranò gli occhi, poi alzò lo sguardo sul crocefisso che pendeva sulla sua testa.
Guardò nuovamente il foglio.
Di nuovo il crocefisso.
Quindi ancora il foglio.
Per un attimo restò ferma a riflettere.
Poi si guardò intorno, si voltò verso la porta. “Nonno…” sussurrò.
Aggrottò le sopracciglia, strappò il foglio in tanti piccoli pezzi e li gettò nel camino spento.
Quindi disse ad alta voce: “Mai. Mai e poi mai”.
E corse ad avvisare nonna Maria.
Foto © Emanuele Franco - flick - contatto email
Racconto pubblicato su Laspro Rivista di Letteratura, Arti e Mestieri, Anno I - Numero 4 - Novembre\Dicembre 2009, Lorusso Editore, Roma